E' necessaria un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato.

Antonio Cederna





Atti Assemblea Naz.

Assemblea Nazionale, sintesi delle decisioni assunte 
 Silvia Minozzi


Circa 350 persone hanno partecipato alla seconda Assemblea Nazionale del Movimento Stop al Consumo di Territorio che si è svolta alla cittadella di Sarzana il 18 e il 19 settembre. Erano presenti i rappresentanti di una cinquantina di comitati e associazioni provenienti da 11 regioni italiane, dalla Sicilia al Piemonte.

Nonostante il programma fittissimo – dalle 11 a mezzanotte passata il sabato e dalle 9 alle 18 la domenica – e la brevità dei tempi concessi ai momenti di pausa, la sala, che ospita circa 250 persone, è rimasta piena fino all’ultimo intervento della domenica pomeriggio. Nel momento assembleare le richieste di intervento da parte dei partecipanti sono state talmente tante che ad alcuni non è stato potuto dare il microfono per ragioni di tempo.

Il tema in discussione nell’assemblea era se il Movimento dovesse restare appunto un movimento aperto, non strutturato, a cui qualunque individuo o associazione può aderire spontaneamente, o se viceversa fosse necessario darsi la struttura formale di una vera associazione con formalizzazione legale, statuto, cariche ufficiali, tessera e quota di iscrizione.

I presenti si sono espressi, praticamente all’unanimità, a favore delle tre proposte lanciate da Gino Scarsi, Alessandro Mortarino e Domenico Finiguerra, i fondatori del Movimento:

- restare Movimento privo di struttura formale, aperto a chiunque voglia partecipare alle sue campagne ed esterno a qualunque legame con partiti politici

- creare una rete effettiva ed efficiente di comunicazione tra tutti i comitati che aderiscono al Movimento per scambiarsi informazioni, coordinarsi in battaglie comuni, aumentare la forza della propria voce

- allargare la struttura organizzativa del Movimento Nazionale coinvolgendo nuove persone e rendendola più efficiente e strutturata .

Nella parte congressuale delle due giornate i temi affrontati hanno spaziato dal molto tecnico – come misurare il consumo di suolo con Google Maps - al molto teorico – la natura come luogo di proiezione dei contenuti inconsci e la sofferenza psichica che deriva dal fatto che l’uomo, non potendo più riconoscere i suoi luoghi, perché devastati dalla cementificazione, non riconosce più nemmeno se stesso – passando per la verticalizzazione delle città, l’importanza della valorizzazione della produzione agricola, gli aspetti economici , paesaggistici, culturali e archeologici , sociali, politici e amministrativi del consumo/salvaguardia del territorio.

Nell’incontro della domenica pomeriggio, dedicato alla realtà ligure e della vicina toscana, particolare attenzione è stata dedicata al progetto Marinella. Silvia Minozzi e Roberto Mazza, coordinatori del gruppo spezzino del Movimento hanno affermato che l’intenzione del Movimento è quella di opporsi in modo radicale al progetto (così come prefigurato nei Masterplan 2007/09), ma nello stesso tempo lavorare, anche con il contributo di esperti, tecnici, comitati, associazioni che in assemblea nazionale si sono detti concordi con noi nel fermare l'irragionevole consumo di suolo, per arrivare a proporre nel breve tempo idee e linee progettuali alternative che abbiano come punto di riferimento il modello di un'economia basata su un turismo a misura della vallata, con connessioni agrituristiche ed enogastronomiche, culturali ed archeologiche, un modello che concili il mare con le apuane e la Lunigiana storica, in cui l'esempio sia più il sud della Francia che il martoriato litorale italiano, con molte biciclette e poche auto, cavalli, turismo diffuso e compatibile, grandissima qualità del cibo, ricezione sobria ma efficiente, miglioramento dei trasporti per ridurre l'uso dell'auto. Un modello che si preoccupi di tutelare il patrimonio faunistico della valle, che rilanci la produzione agricola locale e tuteli il patrimonio artistico e archeologico. Su questi temi sono intervenuti, fra gli altri, il professor Donati, della Soprintendenza ai beni culturali e archeologici, il dottor Salamon, presidente della Doxa, l’architetto Silvano D’alto, i rappresentanti dei GAS locali, Giovanni Gabriele, presidente della sezione spezzina di Italia Nostra.

L’assemblea si è conclusa ribadendo la convinzione che il Movimento è una realtà incisiva e forte, che non tutto è ancora perduto nella lotta per la salvaguardia del nostro Bel Paese dagli scempi voluti da amministrazioni e politici miopi e affinché sia rispettato l’articolo 9 della Costituzione Italiana nel quale si afferma che “La repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Comunicato della Segreteria Nazionale del Movimento relativo alle decisini prese durante l'Assemblea

Alessandro Mortarino per segreteria Movimento Nazionale Stop al Consumo di Territorio
Silvia Minozzi e Roberto Mazza, per il gruppo della Spezia del Movimento Stop al Consumo diTerritorio

Cerco di riassumere le decisioni assunte e gli aspetti operativi che ci coinvolgono tutti e da subito.

Come stiamo ?
Decisamente molte bene, grazie ... L'assemblea era anche una sorta di banco di prova per capire se, a 21 mesi dalla nostra prima assemblea di Cassinetta di Lugagnano, il Movimento fosse sempre vivo e "pimpante".
Attualmente, alla nostra Rete (nata nel Dicembre 2008) aderiscono circa 20.000 cittadine e cittadini a titolo individuale (nomi e volti sono visibili sul sito web nazionale e su causa e gruppo ospitati dal social network Facebook) ed oltre 200 tra Associazioni e Comitati, tra cui le principali organizzazioni ambientaliste italiane, che moltiplicano la quota degli aderenti al Movimento in funzione dei loro innumerevoli iscritti.
Inoltre, dovremmo anche conteggiare le migliaia di persone che hanno sottoscritto il nostro manifesto nazionale nei molti banchetti di raccolta firme (il dato totale non lo vogliamo ancora conoscere ...).


Stop al Consumo di Territorio: il Movimento resti Movimento

Siamo arrivati a Sarzana domandandoci: dopo quasi due anni, dopo che il tema del consumo di suolo è finalmente entrato nell'agenda delle priorità ambientali e sociali della nostra politica nazionale (come sottolineato in assemblea anche da Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente), è ancora il caso di proseguire con la "forma Movimento" oppure è meglio trasformarci in Associazione o, semplicemente, chiudere l'esperienza e procedere nella crescita della sola campagna nazionale ? Questa è stata la provocazione sollecitata dalla segreteria uscente, chiaramente espressa ad inizio assemblea da Finiguerra, Scarsi e Mortarino.
La risposta è stata unanime: il Movimento vada avanti e si rafforzi; restando Movimento, mantenendo cioè la propria struttura "sbarazzina" e priva di organigrammi, aperto a chiunque voglia partecipare alle sue campagne ed esterno a qualunque legame con partiti politici. Semplicemente, intervenga nella propria organizzazione creando gruppi di lavoro ancor più allargati e incisivi e che comprendano il più possibile rappresentanti di tutte le Province.

Con una battuta, alla chiusura dell'incontro assembleare, si è detto: "il Movimento è oggi numericamente grande, facciamolo ora diventare un Grande Movimento".

Miglioramento organizzativo

Finiguerra, Scarsi e Mortarino hanno chiesto un coinvolgimento diretto di molti altri nella conduzione quotidiana delle iniziative del Movimento nazionale: “conditio sine qua non” per mantenere la nostra forza.
L'assemblea ha condiviso la proposta e additato l'esperienza del Forum nazionale dei Movimenti per l'Acqua come esempio di riferimento.
Già in sala molte mani si sono alzate per candidarsi a far parte della nuova organizzazione. Ora l'invito lo estendiamo a tutti coloro che riceveranno questo primo report: inviate alla nostra segreteria un messaggio proponendovi per far parte di uno dei gruppi sotto indicati (indicando: Cognome, Nome, comune, provincia, indirizzo mail, gruppo a cui si intende partecipare).

Si è pertanto deciso di:

1. Costituire un coordinamento nazionale che avrà il compito di "sgrossare" le principali attività; tale coordinamento sarà composto da 1/2 rappresentanti di ogni provincia italiana, messi in rete attraverso un forum virtuale (evitando, quindi, il più possibile riunioni "fisiche" periodiche onde sovraccaricarsi di impegni). Di tale coordinamento è stato chiesto a Finiguerra, Scarsi e Mortarino (in virtù del positivo lavoro sin qui svolto) di essere ancora punto di riferimento operativo;

2. Creare alcuni gruppi di lavoro specifici, a livello nazionale, dedicati alle seguenti tematiche (con modalità di relazione identiche a quelle del punto precedente, cioè sempre in rete virtuale ...). I temi sono il frutto delle priorità emerse e condivise durante l'assemblea:

a. Segreteria e Comunicazione interna/esterna (compiti principali: preparazione/trasmissione di newsletter, aggiornamenti, inviti agli aderenti; comunicati stampa e relazione con i media; gestione del sito nazionale; realizzazione di supporti video ecc.). In particolare, il gruppo piemontese di Langhe, Roero e Monferrato sta mettendo a punto una sorta di "social network" del Movimento su piattaforma Ning, attualmente in fase di test. Questo strumento dovrebbe favorire lo scambio in rete di esperienze, foto, video, documenti, con in più la possibilità di creare forum on-line (discussioni aperte) e pubblicare articoli da parte degli utenti. Per essere chiari, si tratta di un social network (tipo Facebook), ma fatto apposta per il nostro Movimento, in cui le informazioni sono pubbliche e visibili a tutti, ma per pubblicare foto, video, commenti e intervenire nei forum bisogna essere membri registrati. E la cosa interessante è che si possono creare gruppi, che avranno una propria pagina con dei propri membri, e permetterà di pubblicare eventi specifici o mandare mail solo agli iscritti a quel gruppo ... Nei prossimi giorni invieremo una versione da testare

b. Finanziamento del Movimento: occorre che qualcuno si occupi dell'apertura di un conto corrente e della sua gestione, consentendo versamenti on-line. Se ciascuno dei 20.000 attuali nostri aderenti versasse 10 euro di sostegno, avremmo una forza economica affatto irrilevante ... ma al momento non abbiamo un conto corrente !

c. Campagna "Sì al fotovoltaico, ma non su terreni liberi": il nostro "nodo" di Savigliano (Cuneo) ha assunto l'incarico di preparare un documento urgente da sottoporre a tutti i consiglieri regionali, di ogni Regione (attraverso il diretto agire dei nostri “nodi” locali), per sollecitare specifiche azioni a salvaguardia dei suoli agricoli e del paesaggio in questa delicata fase di recepimento locale delle Linee Guida per l'autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili (D.M. 10 settembre 2010 pubblicato sulla G.U. del 18/9/2010). Analogamente, anche il gruppo di Campiglia Marittima - attraverso Massimo Zucconi - si è incaricato di inviarci alcune documenti di possibili proposte di OdG o iniziative “dal basso” da sottoporre alle amministrazioni locali per la salvaguardia dei Beni Comuni.

d. Federalismo Demaniale: su proposta di Bonelli, Turroni ed altri si è decisa l'immediata azione del nostro Movimento per ostacolare il recente provvedimento del Governo sul "federalismo demaniale", attraverso il quale nei prossimi mesi si rischia una certa "svendita" di considerevoli Beni collettivi dallo Stato agli Enti Locali che, date le ristrettezze finanziarie, saranno inevitabilmente invogliati e costretti a cederli ai privati con varianti nella destinazione d'uso ed ovvie, conseguenti, speculazioni a danno del Bene Comune. Seguirà a breve documentazione specifica e proposte operative.

e. Urbanistica partecipata/Formazione: da più parti è stato richiesto di poter proporre momenti di confronto e di approfondimento (seminari più che convegni ...) in ogni zona d'Italia, in cui "nostri" Architetti, Urbanisti, amministratori possano trasferire le loro esperienze concrete ad amministratori locali, magari in accordo con Eddyburg, Rete del Nuovo Municipio e Associazione dei Comuni Virtuosi. Parallelamente, si è sollevata l'esigenza di approfondire le pratiche di democrazia partecipata per definire un possibile quadro di "nuova democrazia" che riconduca alla decisione collettiva anzichè alle decisioni dei soli "delegati" (Sindaci, Presidenti …): occorre costruire un apposito vademecum (on line e cartaceo) che specifichi i passi tecnici e giuridici, il ruolo dei cittadini, delle associazioni/Reti, degli amministratori ecc. ecc..

f. Valutazioni ed Osservazioni tecniche: occorre creare un ampio pool di "tecnici" (architetti, geologi, avvocati ecc.) in grado di aiutarci nel valutare preliminarmente situazioni critiche e, magari, ricondurle a condizioni più generali trasformandole in possibili proposte di intervento diffuso (proposte di legge popolare, facsimili di delibere, ordini del giorno ecc. ecc.).

3. Visibilità della nostra campagna: a tutti i nostri aderenti viene rinnovata la proposta di aggiungere alla propria denominazione/logo anche la dicitura “Aderente alla campagna nazionale per lo Stop al Consumo di Territorio” e il nostro logo, così da rendere sempre più evidente l’estensione dell’intera nostra comune iniziativa. Poiché molte organizzazioni locali ci stanno chiedendo conferme della loro adesione alla campagna, abbiamo provveduto a modificare sul sito web nazionale l’elencazione delle organizzazioni aderenti, ora in ordine “geografico”: http://www.stopalconsumoditerritorio.it/index.php?option=com_content&task=view&id=74&Itemid= . Vi preghiamo di verificare se le vostre organizzazioni sono tutte registrate e, in caso contrario, comunicarci le adesioni eventualmente mancanti.



Intervento di Piero Donati (Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria)



Nella lettera aperta indirizzata il 2 settembre scorso a Salvatore Settis in vista dell’apertura del Festival della Mente di Sarzana avevo posto due questioni.

La prima riguardava la considerazione che chiunque voglia porsi l’obiettivo di realizzare un intervento urbanistico in una zona pluristratificata dal punto di vista antropico non può non farsi carico di questa pluristratificazione; in Italia non esiste paesaggio che non sia antropizzato e questa è una caratteristica peculiare del nostro territorio che non può essere dimenticata.

La seconda questione era più specifica e riguardava la possibilità del riuso delle strutture dell’edificato storico che abbiamo ereditato dalle generazioni passate. In particolare ponevo la questione della ex Colonia della Gioventù Italiana del Littorio – più nota come Colonia Olivetti - sita nella località di Marinella, ai confini con la Toscana . Si tratta di una struttura inaugurata nel 1938 a seguito di concorso, pensata come struttura di valenza nazionale e quindi realizzata con grande abbondanza di mezzi. Attualmente la Colonia è di proprietà della Regione Liguria ed è da anni in stato di palese abbandono. Negli anni sono state pensate e tentate soluzioni varie per il recupero della struttura ma tutti i progetti sono rimasti sulla carta. La Regione è adesso nell’ottica di liberarsi della Colonia e per questo sono state bandite due aste che sono però andate deserte. I sostenitori del piano della Marinella SpA hanno proposto la soluzione di abbassare il valore d’asta.

Io sono viceversa dell’avviso che ci si debba porre nell’ottica della rimessa in circolo della struttura, e con essa dell’attiguo Villaggio Fabbricotti. Si tratta di un villaggio storico della Liguria, un villaggio ‘industriale’ peculiare in quanto riservato esclusivamente ai lavoratori della tenuta, governato con sistema neofeudale da un unico padrone; una struttura chiusa con propri spazi, una propria chiesa, una propria scuola, un proprio cimitero, e come tale vincolato. Così come è sottoposta a vincolo dal 1989 la Colonia, vincolo che è stato ribadito nel 2007.

Una prospettiva di riuso della Colonia potrebbe realizzarsi nel campo dei beni culturali. E’ importante sottolineare da questo punto di vista che chi si pone il problema di operare in Italia non può non considerare che i Beni Culturali in Italia hanno una dimensione, per quantità, non paragonabile a quella degli altri paesi europei, ma ben superiore.

Il primo errore è quello di annegare il problema dei Beni Culturali nel mare magnum della “Cultura”. La Regione Liguria è l’unica fra le regioni a statuto ordinario a gestire un proprio Laboratorio di Restauro e questa è una risorsa ( e non un’anomalia, come da più parti si ritiene ) che potrebbe essere utilizzata in questo senso.

Non si può infatti ignorare che siamo a breve dstanza da Luni (la zona archeologica più importante della Liguria) e che la Lunigiana storica, corrispondente all’incirca al territorio delle due province della Spezia e di Massa-Carrara, è stata per secoli la più importante fornitrice di materiali lapidei di pregio per mezza Europa. Abbiamo il dovere di tenere nella dovuta considerazione questo patrimonio storico e culturale, di conservarlo e di valorizzarlo. La Regione dovrebbe farsi carico di questo patrimonio e non pensare alla colonia solamente come un mezzo per fare cassa ; al contrario dovrebbe considerarlo come un punto di partenza per attuare una politica attiva di recupero e valorizzazione dei beni culturali , paesaggistici e architettonici.

Un altro esempio degno di nota è quello della stazione ferroviaria di Luni, creata alla fine dell’Ottocento e anch’essa in stato di palese abbandono. La stazione rappresenta una fetta importante della storia di intere generazioni di abitanti di questa zona; fra le sue pertinenze vi è un grande piazzale rialzato di notevole finezza , circondato da cordoli di arenaria e funzionali scalette di accesso che era stato creato per lo stoccaggio della lignite estratta dalle vicine miniere in attesa di essere caricata sui carri merci. Molti dei nostri progenitori hanno lavorato in quelle miniere e transitato per quella stazione. Nella stanza d’aspetto della stazione vi erano fino a pochi anni fa arredi degli anni Trenta di notevole qualità; rimane un bellissimo tavolo con complementi di bronzo e piano di marmo rosso di Verona.

Dalla stazione di Luni alla zona archeologica vi sono non più di 15 minuti di strada a piedi e pochi minuti in bicicletta. La zona è sostanzialmente intatta e vi sono edifici rurali di qualità; la strada già esistente potrebbe essere con facilità messa in condizione di essere utilizzata come pista ciclabile. Non si tratterebbe cioè di inventarsi qualcosa di nuovo, si tratterebbe soltanto di recuperare e valorizzare un patrimonio che già possediamo.

E’ una follia che tutta questa ricchezza venga lasciata in questo stato di doloroso abbandono e non venga viceversa rimessa in circolo come punto di partenza per un programma di rilancio del nostro territorio. Che cosa possono fare, in questo contesto, gli organi di tutela, e cioè le Soprintendenze ?

Purtroppo dal 2004 le Soprintendenze sono sottoposte gerarchicamente alle Direzioni Regionali, presiedute da funzionari nominati direttamente dal Consiglio dei Ministri , funzionari molto ben pagati che hanno l’unico compito di garantire che vengano attuate le politiche dell’esecutivo, politiche che spesso non agevolano ( è un eufemismo ) chi si pone il compito di tutelare i beni paesaggistici e culturali del territorio coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 9, secondo comma, della Costituzione della Repubblica Italiana.

Per tutte queste ragioni io ritengo che il Movimento Stop al Consumo di Territorio dovrebbe porsi tra i suoi obbiettivi quello di instaurare un dialogo e una collaborazione con le Soprintendenze, rivendicandone un deciso rafforzamento nel quadro di un sostanziale ridimensionamento del sistema delle Direzioni Regionali.



Intervento del dr. Ennio Salamon, presidente dell’Istituto Doxa


Per poter dare un giudizio sui possibili effetti a breve termine ed a lungo termine, degli interventi proposti nella Tenuta di Marinella e nel comune di Ameglia, è necessario osservare le tendenze della domanda turistica in Italia.
Le tendenze della domanda italiana e straniera ed i comportamenti, le motivazioni e le aspettative dei visitatori sono stati osservati, negli ultimi anni, nel corso di molte rilevazioni periodiche fatte dall’Istituto Doxa e da altri organismi (Istituto Centrale di Statistica, Banca d’Italia, ecc.) ed anche con ricerche specifiche su alcuni segmenti della domanda (turismo balneare, turismo culturale, viaggi e soggiorni nelle piccole città, nei borghi e nei villaggi, ecc.).

La domanda turistica tradizionale dell’Italia, concentrata in alcune regioni per il turismo balneare, ed in alcune grandi città (Roma, Venezia, Firenze, Milano e poche altre), per il turismo culturale, da alcuni anni non cresce più e presenta molti problemi. Negli ultimi due anni è stata osservata una flessione dei visitatori stranieri in Italia, per nuove tendenze della domanda e per la concorrenza crescente di altre destinazioni, in Europa e nell’area del Mediterraneo, destinazioni che possono offrire prezzi competitivi, anche in rapporto all’attrattività dei luoghi ed alla qualità delle strutture ricettive e dei servizi turistici.
Non aumentano più e in alcune regioni, come la Liguria, diminuiscono, le vacanze lunghe al mare, nelle case di vacanza comperate dalle famiglie italiane ed utilizzate solo per poche settimane all’anno nei mesi estivi, e le vacanze nelle case prese in affitto, più spesso solo per soggiorni brevi, di una o due settimane.

Attualmente solo metà degli italiani fanno almeno una settimana di vacanza, con quattro o più pernottamenti consecutivi lontano da casa nel corso di un anno, e la percentuale di adulti che vanno in vacanza è rimasta quasi costante negli ultimi dieci anni.
Sta invece aumentando la propensione a viaggi di vacanza brevi, in Italia e all’estero, alimentati anche da interessi specifici (conoscenza di un territorio, con un crescente interesse per le visite a piccoli centri ed alle aree protette in Italia, partecipazione ad eventi culturali, esperienze enogastronomiche ed acquisti di prodotti locali, sia nel settore alimentare, che in altri settori, ecc.).
L’offerta di voli low-cost e la maggiore possibilità di programmare in modo autonomo viaggi e vacanze attraverso Internet, stanno modificando i comportamenti di scelta delle destinazioni e delle forme di vacanza, in Italia ed all’estero, con la possibilità di attirare nuove correnti turistiche verso l’Italia e verso nuove destinazioni in Italia, anche nelle stagioni intermedie, (ma si corre anche il rischio di perdere i visitatori attuali, con interventi sul territorio non coerenti con le attuali motivazioni ed aspettative dei turisti italiani e stranieri).

Il progetto proposto per l’area di Marinella e per i comuni di Ameglia e Sarzana, con investimenti concentrati sulla costruzione di appartamenti per il turismo balneare, e sull’offerta di molti posti barca, non è coerente con le prospettive della domanda turistica e della nautica, in Italia ed in Liguria ed è, per molti aspetti, già superato, rispetto alle prospettive di sviluppo della zona.
Nell’area interessata e, in generale, nella provincia della Spezia, esistono invece concrete possibilità di attrarre nuovi visitatori italiani e stranieri, interessati a molti elementi di interesse offerti dal Levante Ligure, dalle Cinque Terre, al Golfo della Spezia, alla Lunigiana ed alla Val di Vara con interventi di tipo diverso.
Sono previsti, nel progetto Marinella, oltre 80.000 metri quadrati per case di vacanza, ottenibili per una quota ridotta con il recupero degli immobili esistenti nella Tenuta e per la parte prevalente con nuove costruzioni, ed oltre 750 posti barca.

Nei comuni costieri della provincia i prezzi di vendita di case di vacanza, vicine al mare, sono attualmente molto alti, ma le vendite degli immobili offerti sono, in realtà, molto lente, e la domanda di case in locazione, concentrata fra luglio e agosto, è molto bassa.
L’edificabilità prevista corrisponde a più di 1000 appartamenti nell’area della Tenuta di Marinella, ed a molti altri nel comune di Ameglia, lungo il fiume Magra. Gli appartamenti progettati corrispondono, complessivamente, ad almeno 4000 nuovi abitanti fra luglio e agosto, nei due mesi in cui la spiaggia di Marinella, fra Fiumaretta e Marina di Carrara, è già affollata, per l’affluenza di molti bagnanti da Sarzana, dalla Lunigiana ed altri comuni, anche delle provincie vicine.
L’inserimento di molti bagnanti sarebbe molto difficile, anche se la spiaggia di Marinella potesse rimanere nelle dimensioni attuali. In realtà, per poter realizzare un nuovo porto turistico, la spiaggia attuale dovrà essere modificata e ridotta, anche per consentire l’accesso di molte barche, prevalentemente a motore.

Il degrado del territorio nei comuni di Ameglia e di Sarzano e la perdita (o la riduzione) di una fertile area agricola, è forse il prezzo che deve essere pagato, per poter costruire molti posti barca, che non possono essere trovati altrove?
In realtà non è così (e questo è uno degli aspetti più criticabili del progetto), perché l’offerta di posti barca, nel nuovo porto di Mirabello, vicino all’Arsenale della Spezia, ed anche in altre parti del Golfo, è già superiore alla domanda. Molte barche (prevalentemente a motore), che attualmente sono esposte a forti rischi sulle rive del Magra potrebbero essere accolte, senza difficoltà, e con ormeggi più sicuri, nel Golfo della Spezia.

Numerosi posti barca nel porto turistico di Mirabello sono ancora invenduti, ed altri attracchi potrebbero essere realizzati in alcune aree del Golfo poco utilizzate attualmente, o che saranno dismesse in un prossimo futuro, con un impatto sull’ambiente molto minore, evitando gli scavi progettati vicino all’area archeologica di Luni, ed evitando anche la perdita o una minore fruibilità della sola grande spiaggia della provincia della Spezia, su cui si deve invece puntare, per nuovi insediamenti turistici di altro tipo, più compatibili con l’ambiente e più coerenti con le tendenze della domanda.

Tutte le ricerche sui comportamenti, l’esperienza e le aspettative dei visitatori stranieri in Italia confermano che prevale l’interesse per l’ambiente naturale e per il paesaggio dell’Italia, per i beni artistici , per la gastronomia ed i vini, per l’accoglienza offerta nei piccoli centri e nelle piccole strutture. L’area di Sarzana può rispondere, come poche altre in Italia, a queste attese, che sono sempre più complesse ed articolate, ma solo se saprà conservare la propria identità, evitando di diventare un grande “condominio”, con molti (troppi) nuovi appartamenti destinati a restare a lungo chiusi (e, probabilmente, invenduti), ed anche un grande parcheggio di barche a motore, utilizzate solo per poche settimane all’anno prevalentemente per piccoli spostamenti nel Golfo.

La decisione di costruire nella Tenuta di Marinella viene collegata, da alcuni interessati al progetto, ad un minore interesse dell’attuale proprietà per l’attività agricola e per gli allevamenti nella Tenuta da abbandonare per le nuove costruzioni, ma questa giustificazione non è accettabile, per un territorio fertile ed irriguo, con una domanda attuale e potenziale di prodotti ortofrutticoli locali di qualità che è molto forte, nella provincia della Spezia e nella vicina Versilia (per i consumi estivi). D’altra parte, il Monte dei Paschi di Siena ha dimostrato di saper gestire con profitto aziende agricole (soprattutto vitivinicole) in altre zone della Toscana.
Chi deve prendere decisioni, nella Regione Liguria e nelle Amministrazioni Locali deve considerare non solo alcune prime ricadute, in termini di oneri di urbanizzazione e di occupazione nelle imprese interessate all’intervento (ricadute molto dubbie anche a breve termine) ma anche, e soprattutto, ai possibili effetti a medio e lungo termine di un intervento più attento ai reali interessi della provincia della Spezia, per lo sviluppo di un turismo sostenibile.


Marinella, Calata Paita, via Muccini
Intervento del Prof.Silvano D’Alto


Tre progetti sono calati sul territorio La Spezia-Val di Magra quasi simultaneamente, con una identica linea di politica urbana: massima valorizzazione della rendita, mancanza di una visione dell’interesse pubblico che viene fatto coincidere con quello privato. I tre intereventi sono: la macro darsena di Marinella di Sarzana, la lottizzazione di Via Muccini e Piazza Terzi a Sarzana, la lottizzazione di Calata Paita a La Spezia. Lottizzazioni: altro nome non si può dare a questi interventi, perché sono privi di una idea di città e di vivere comune; sono merci in vendita, non spazi urbani per un nuovo territorio.
Ognuna delle tre aree occupa luoghi nevralgici e strategici nei confronti del paesaggio. Nevralgici: perché unici nel territorio; strategici perché la logica privatistica e rigorosamente esclusiva – vorrei dire di classe – , che privilegia un acquirente di classi sociali elevate e molto elevate, finirà per riprodursi sul territorio, degradandolo ulteriormente, provocando privilegi e squilibri sociali che lo renderanno poverissimo di vera cultura urbana.
Dico cultura urbana perché la ricchezza della nostra storia è proprio in quel senso della città, che è la costruzione più alta e complessa del vivere comune costruita nel tempo, dove si incontrano i valori che scaturiscono dal pensiero e dal linguaggio, dalla ricerca di uguaglianza, dai diritti comuni all’uso delle risorse, dalle relazioni di solidarietà, di convivenza sapientemente costruita, di mirabile integrazione della sfera pubblica con quella privata. Nelle città e nella loro relazione con la campagna, malgrado la forte dominanza delle prime sulla seconda, si sono costruite nella storia importanti dimensione di cultura e di civiltà.

Da questi tre interventi ci si sarebbe dovuto aspettare progetti lungimiranti rispetto al senso del rapporto pubblico-privato, al degrado dell’uso proprietario e mercificato del suolo, rispetto ai diritti dei futuri utenti che avrebbero dovuto percepirsi come cittadini nei nuovi spazi di vita comune. Una festa dunque da costruire insieme – perché i costruttori di città sono creatori di futuro – conciliando economia e comunità, valori del passato e del presente e senso di un bene comune da trasmettere alle generazioni future. Si tratta invece di interventi che negano il senso della identità collettiva delle popolazioni locali, che non costruiscono il senso di appartenenza alla città, interventi nei quali manca sia la coscienza del luogo sia la più ampia coscienza urbana. Interventi poveri di relazione, di storia, di identità.

Sono proposte che si limitano alla mera ideologia del fare, cioè di accettazione delle tendenze in atto, senza una visione di insieme del territorio, dei bisogni da soddisfare nella prospettiva di futuro, dei valori da difendere e promuovere. Interventi aggressivi che nascono da scelte esogene, portate avanti da gruppi di potere che vogliono sfruttare la rendita ma che hanno disinteresse totale, e anzi fastidio, ogni volta che si parla di bisogni collettivi, di senso sociale degli interventi, di cultura, cioè del senso delle relazioni comuni da istituire sul territorio.

Riassumendo puntualmente, questi sono i tratti in comune dei tre interventi:
1) la valorizzazione della rendita di aree ad alto valore paesaggistico e strategico nel contesto territoriale;
2) il carattere lottizzatorio degli interventi, perciò si tratta di aree che si chiudono in sé stesse, si autogiustificano, senza farsi momenti e motivi di connessione e di vivificazione sociale e culturale dei tutto il territorio;
3) Sono insensibili alla costruzione di una idea di città, non sono frammenti di vita urbana, ma operazione di grevi cubature, senza che queste si facciano spazi di vita comune. Il cittadino non è attore ma spettatore di una ricchezza che non gli compete, sulla quale può soltanto sentirsi estraneo e financo straniero;
4) Mancanza di un percorso di individuazione dei bisogni e dei valori da introdurre nei progetti insieme ai cittadini. Perdura, in maniera ancora più dura rispetto al passato, la elaborazione di progetti senza un vero processo partecipativo. Si tratta di proposte autocratiche, calate dall’alto per un tipo di interventi che vorremmo chiamare di aggressione alla città e al territorio. I Comitati di cittadini, barlume di coscienza civile, mal sopportati.
5) Esiste una drammatica discrasia tra le parole usate (sostenibilità, ambiente, pianificazione, ecc.) e la realtà proposta: greve e banale, povera di senso urbano e di nuove forme di vita urbana. Spazi che difficilmente saranno la “casa di tutti”, il “bene comune” di una vita che aspiri a sentirsi e ad essere comunitaria.

Un breve riepilogo dei 3 progetti:

MARINELLA
Si tratta della proposta di una serie di darsene grandi e piccole, con l’intervento maggiore spostato nell’area contigua del Piano del Parco Naturale Regionale di Montemarcello-Magra, area in gran parte di proprietà della Monte dei Paschi. La proposta viene sostenta con una Variante che legittima una violazione gravissima alla visione protettiva del Parco. Di fatto è una delegittimazione del Piano del Parco, perché vuol dire che i principi del Parco non sono più cogenti, ma manipolabili e si possono tranquillamente respingere come inadeguati per i politici che li dovrebbero difendere. Un atteggiamento di una gravità assoluta. Una legge (tale è la variante) per legittimare ciò che è illegittimo nello spirito della legge del Parco. Con tale lasciapassare si è approvata una forte edificazione ai lati degli specchi d’acqua, tutta con un carattere fortemente privatistico: la sezione trasversale dell’intervento è raggelante per il carattere esclusivo e privatizzante degli spazi delle darsene. Non c’è nel progetto un rapporto pubblico-privato che dia il senso di un raccogliersi, incontrarsi e passeggiare insieme di cittadini in faccia al fiume. Un momento nuovo di felice vita urbana. Invece è un rimessaggio di barche senza contesto. O comunque è un contesto anch’esso privatizzante.

Nella variante, darsene, fiume, campagna sono mondi che si ignorano reciprocamente. Non un fluire graduale di uno nell’altro costruendo territorio (cioè relazione di spazi di vita comune) e paesaggio (cioè , storia, identità, cultura) ma una netta separazione di spazi e di tempi dell’azione. Gli argini circondano gli specchi d’acqua con un continuo ritorcersi su se stessi che distaccano il rapporto col fiume e con la campagna. Era questa l’unica soluzione possibile? No, certamente, ma bisognava pensare con altro senso del paesaggio e dei valori di vita comune. Certo, esosità di posti barca e cubature eccessive non hanno permesso una visione più aperta tra darsena e fiume, una dilatazione dello spazio, ma un richiudersi dello stesso in una serie di darsene piccole e grandi; serie che sembra pensata per una disponibilità successiva nel tempo di specchi d’acqua a discrezione della proprietà: la Marinella S.p.A.. Forse un bene per i possessori di barche, ma un grave, inconcepibile, danno per il paesaggio.

Ancora, ci si dovrebbe chiedere: qual è il sistema idraulico di questi argini? quali garanzie offriranno nel caso di forti esondazioni? La massa d’acqua resterà necessariamente costretta in spazi limitati. Non si dovrà poi ricorrere a uno scolmatore o ad altri interventi che ricadranno sulle istituzioni pubbliche?
E poi, altra domanda essenziale: si è studiato il sistema ecologico fiume, sponde, campagna, nei suoi aspetti di flora e di fauna? Cosa si distrugge con questo maxi-intervento? Cosa si costruisce? Si dice che si tratta degradata. Ma questo non dà una risposta ecologica. Un sistema può diventare selvaggio, cambiare vegetazione e carattere ma resta un sistema che si evolve e perviene ad una condizione nuova dalle quale bisogna partire per qualunque trasformazione.
Una proposta di deviazione della strada provinciale tra Sarzana e Marinella separa la campagna dalla darsena-rimessaggio. È paesaggisticamente devastante. Il sistema di darsene-edificazione ai margini risulta così un enclave esclusiva, un’isola di banale, presuntuoso privilegio. Nega il senso del paesaggio: che è visione olistica, apertura, relazione col tutto, simbolicamente ricca di senso di appartenenza all’area di vita comune.

VIA MUCCINI - PIAZZA TERZI.

Forse è stato il progetto apripista degli aggressivi interventi sul territorio.
Via Muccini si configura come un drammatico accesso alla città di Sarzana
Una presunzione assoluta circa il carattere degli spazi da costruire ha portato a configurare un ingresso formato da una sequenza di micro-torri di 7 piani ai lati di una piccola strada. Erano il corollario della grande torre abbattuta. Ma restano ancora vigili e imponenti a dichiarare il senso dell’intervento: lottizzazione, massimizzazione della rendita, non è una anticipazione fresca e vivace della urbanità cordiale, pacifica, commerciale di Sarzana. Negozi sulla strada di grande traffico, blocchi di appartamenti ripetuti senza una qualche diversità che tolga monotonia e schematismi formali. A piazza Terzi si demolisce un vecchio, dignitoso mercato – ora certo in vistoso degrado con una grande aula centrale, – per costruire una galleria che propone uno spazio assai meno interessante dell’esistente vecchio mercato, se opportunamente ripreso nei suoi aspetti migliori e riconfigurato con più complesse funzioni nella piazza. Ma, tant’è, se l’obiettivo sono le cubature, il pensiero è ucciso sul nascere; la nuova città non nasce.

CALATA PAITA

Questa è la vera colata (non si sa ancora di quanti metri cubi si tratti). Ma è stupefacente che quando si è aperta la disponibilità di una grande area sul mare – dopo una lungo processo politico-urbanistico di trattative tra pubblico e privato, che si è concluso con l’assegnazione alla “città” della calata Paita – questa venga inzeppata di condomini e di torri, giustificando il tutto con immagini di attrezzature di alto valore sociale e culturale. Il progetto parla ben altro linguaggio delle parole mistificatrici. Se grande spazio di vita comune doveva essere, questo carattere doveva essere chiaro nel carattere degli spazi, nel senso della città che intendeva prospettare: uno spazio urbano di tutti, il diritto alla città realizzato come bene comune.

Anche questo intervento è chiuso in sé stesso, area di assoluto privilegio. Occorre allargare lo sguardo. Riflettere che il tratto urbano del golfo comprende anche gli spazi dell’Arsenale Militare: occorrerebbe una visione complessiva per una pianificazione capace di guardare al futuro della città, non agli interessi particolari. Ma una domanda si impone? Quali sono i destinatari del progetto Calata Paita? Non tutti i cittadini certamente. E se non tutti, quali? Quali sono i gruppi di interesse che opereranno la trasformazione? Insomma a chi andrà la rendita? Un progetto trasparente dovrebbe partire da queste semplici domande.

Tre progetti, e una unica visione del territorio: “la grande abbuffata” può essere cancellata o almeno radicalmente rivista?



Il Nodo della Spezia e della Val di Magra del movimento Stop. Programmi e obbiettivi


Silvia Minozzi

Mentre noi siamo qui ad accogliere a Sarzana la seconda assemblea nazionale per lo Stop al Consumo di Territorio, con una serie di ospiti eccellenti che ci hanno invitato a preservare cultura e territorio, zone agricole e paesaggi, rilanciando l’idea di un turismo sostenibile fondato sulle risorse naturali, il nostro territorio continua imperterrito a sfornare idee deliranti: un grande outlet a Brugnato, 10 capannoni artigianali in val Graveglia, l’ipotesi di un campo da golf in Val di Vara, una darsena di proporzioni enormi sul fiume Magra, 83.000 mq di abitazioni a Fiumaretta e Marinella, un grattacielo sul porto di La Spezia, più un numero imprecisato di case e casette, spesso frutto di decine di varianti ai vari piani regolatori. Un territorio martoriato dove amministrazioni disperate per la cronica penuria di denaro invece che investire su un futuro fatto di turismo sostenibile e adeguato ai contesti locali ed alle bellezze naturali (il verde che ancora caratterizza la Val di Vara, il paesaggio insuperabile che rimane quasi inalterato da secoli tra Montemarcello, il fiume Magra, il Parco Campagna; piccole valli, colline e borghi ancora incontaminati, sia in Val di Vara che in Val di Magra) sognano centri commerciali, zone artigianali, capannoni industriali, ma anche campi da golf, grandi darsene in grado di ospitare i mega yachts, terze corsie, grandi alberghi.

Per cercare di opporci a questo processo la scorsa primavera in un gruppetto di amici abbiamo deciso di collegarci al Movimento Nazionale per lo Stop al Consumo di territorio costituendo un gruppo che fosse attivo nella Val di Magra e più in generale nella provincia della Spezia. Abbiamo perciò fatto nostri gli obbiettivi del movimento nazionale e abbiamo voluto caratterizzarci come un gruppo che si pone al di là e al di sopra di qualunque schieramento politico o fede religiosa. Il nostro obbiettivo è prevalentemente quello di fare informazione, educazione, divulgazione, in altre parole di fare cultura, per cercare di agire sul senso di responsabilità e sulle coscienze degli individui, siano essi normali cittadini, amministratori, politici.

Pensiamo e abbiamo intenzione di organizzare perciò per il prossimo inverno interventi nelle scuole (attraverso la proiezione di filmati o programmi educativi realizzati in collaborazione con gli insegnanti) , interventi nei Comuni, di fare informazione attraverso i giornali locali, di organizzare giornate di lavoro o seminari su tematiche specifiche legate alla tutela dell’ambiente in generale e del nostro territorio in particolare. Un altro dei nostri obbiettivi è quello di iniziare a raccogliere dati per effettuare un censimento del patrimonio edilizio dei comuni, dei capannoni costruiti, e in particolare, della percentuale vuota o inutilizzata.

Alla prima riunione di presentazione al pubblico ci siamo trovati di fronte più di 50 persone interessate, motivate e desiderose di collaborare. E anche alla seconda ce ne erano altrettante. Questo ci ha caricato di entusiasmo, ci ha convinto che ci stavamo muovendo nella direzione giusta e ci ha spinto ad accettare la proposta del Movimento nazionale di organizzare a Sarzana l’Assemblea di questi giorni.

Una delle problematiche più urgenti e rilevanti per la nostra piana riguarda il progetto Marinella. Molto in sintesi questo progetto prevede nuova edificazione su una superficie totale di 86700 mq, di cui 32450mq nel Comune di Sarzana (titolare del 60% dell’area in oggetto) e 54250 mq nel Comune di Ameglia (40%), la riduzione del 30% del territorio agricolo interessato dal progetto, la costruzione di una darsena per 800 posti barca all’interno del fiume corredata da villette, negozi, centri commerciali, nuove strade.

Il progetto viene proposto dalle amministrazioni come occasione fondamentale per il recupero di aree degradate, rilancio per le economie locali, occasione fondamentali per offrire nuovi posti di lavoro alla popolazione locale, il tutto nel rispetto e nella tutela dell’ambiente.

La nostra posizione è quella di opporci in modo radicale al progetto (così come raffigurato nei masterplan 2007/09) e nello stesso tempo individuare le problematiche e le criticità principali del progetto e per ciascuna di esse, avvalendoci della consulenza di esperti (agronomi, architetti, urbanisti, giuristi, economisti) arrivare a proporre delle soluzioni alternative che siano realistiche e percorribili.

Ci piacerebbe proporre nel breve tempo idee e linee progettuali alternative per poter arrivare ad un'economia basata su un turismo a misura della nostra vallata, con connessioni agrituristiche ed enogastronomiche, culturali ed archeologiche, che concilino il mare con le apuane e la lunigiana storica, in cui l'esempio sia più il sud della Francia che il martoriato litorale italiano, con molte biciclette e poche auto, cavalli, turismo diffuso e compatibile, grandissima qualità del cibo, ricezione sobria ma efficiente, miglioramento dei trasporti per ridurre l'uso dell'auto, con navette, collegamenti con Spezia e i treni per le 5 terre oltre che con la Versilia e la Lunigiana, ma anche qualcosa per attirare i giovani.

Questi i punti chiave che abbiamo messo a fuoco:

- informazione: la popolazione non è informata in modo completo e trasparente né relativamente al progetto in sé (dimensioni, quantità di nuove edificazioni), né relativamente al complesso iter burocratico che il progetto ha seguito e deve ancora seguire : cosa deve ancora succedere e quanto tempo passerà prima che il progetto diventi esecutivo e comincino effettivamente con le ruspe; di conseguenza che spazio c’è ancora per i cittadini per fare qualcosa;

- aspetto culturale: Il consumo di territorio da parte delle amministrazioni e degli speculatori, così come la sua passiva accettazione da pare dei cittadini, sono dovuti sia al modello economico basato sull’aumento continuo del reddito e del PIL, sul consumismo , sul benessere inteso come lusso , spreco e grande disponibilità di denaro, sia alla perdita da parte dei cittadini dell’amore per la bellezza del paesaggio, per la campagna , per la propria storia e le proprie radici. Ispirandoci al modello della decrescita serena di Serge Latouche intendiamo impegnarci per promuovere questi cambiamenti culturali promuovendo il risparmio energetico, l’abbandono della logica consumistica e incentrata solo sulla produzione di reddito in favore di un atteggiamento più sobrio e altruistico ; ridare valore alla povertà rispetto alla ricchezza, alla scarsità rispetto all’abbondanza, la solidarietà sociale, alla giustizia rispetto alla ricchezza e al potere individuale.

- agricoltura: la produzione agricola di una delle valli più fertili verrebbe ulteriormente ridotta; vorremmo proporre dei progetti di recupero e potenziamento della produzione agricola locale; educando al contempo i cittadini a privilegiare i prodotti locali e stagionali;

- cuneo salino: il rischio legato alle escavazioni nel fiume per fare posto alla darsena è quello di vedere uscire acqua salata dai rubinetti dell’acqua. E’ già successo ad Ameglia nel 1968, quando dai quattro pozzi da cui gli abitanti attingevano acqua cominciò a venire acqua salata e tutti i ciliegi che davano sostentamento ai contadini della zona seccarono a causa delle escavazioni selvagge che in quegli anni venivano fatte. Intendiamo sensibilizzare la popolazione e chiedere alle amministrazioni che vengano fatte tutte le valutazioni tecniche e scientifiche per valutare l’entità di questo rischio

- rilancio dell’economia : gli amministratori ci dicono che il progetto sarà il “volano dell’economia” per la popolazione locale; in che misura questa promessa si trasformerà in realtà? Non si tratterà solo di posti di lavoro a termine, solo nei tempi delle edificazioni? Quanti posti di lavoro può effettivamente offrire la darsena? Se l’edilizia riguarderà prevalentemente seconde case in che misura i loro abitanti stagionali porteranno effettivamente denaro per gli abitanti locali? Se la darsena sarà circondata da negozi e centri commerciali all’interno di una sorta di villaggio chiuso, che ripercussione avrà per i piccoli commercianti di Fiumaretta? .

- turismo: lo sviluppo turistico previsto prevede nuove case, negozi, centri commerciali, strade, mille ombrelloni in più sulle nostre spiagge già superaffollate e erose da un mare sempre più simile ad una pozza sporca ; è questo che cercano i turisti? E quale turismo? i turisti cercano il bello , la campagna e il mare pulito; non è incentivo al turismo ricoprire la valle di case e capannoni. Vorremmo promuovere un turismo di qualità fatto per persone che cerchino il bello e le peculiarità ancora visibili del nostro territorio, paesaggistiche e culturali , proponendo lo sviluppo degli agriturismo, piste ciclabili, passeggiate, spiagge pulite e non sovraffollate, valorizzazione dei siti archeologici e dei beni culturali.


- tutela della biodiversità: La piana di Marinella unica piana costiera ligure , rappresenta una zona estremamente importante per l’avifauna . Di fondamentale importanza per i flussi migratori di diverse specie di uccelli che in primavera ,provenienti dall’Africa migrano attraverso il sistema sardo – corso e trovano qui un primo approdo dopo tanto mare per fermarsi a riposare ed alimentarsi e poi proseguire la loro migrazione verso i quartieri di nidificazione settentrionali . La zona è interessata inoltre dal passaggio di uccelli che seguono una conosciuta rotta migratoria che lungo le coste liguri e tirreniche . In inverno zona di svernamento per diverse specie di uccelli, primo fra tutti l’airone guardabuoi che, come dice il nome ,trova il suo habitat preferito in zone agricole con animali al pascolo. Intendiamo batterci per la tutela del patrimonio faunistico e verificare la possibilità, di realizzare un parco per la biodiversità.

-L’ impronta ecologica del progetto: ovverosia l’impatto che la realizzazione del progetto avrebbe, in termini quantitativi, sul consumo delle risorse che il nostro territorio può effettivamente offrire non è stat considerata da nessuno. Vorremmo misurare, in termini quantitativi, il peso sull’ambiente del progetto Marinella : l’ aumento previsto degli abitanti , l’aumento del consumo di acqua potabile, della produzione di rifiuti solidi, degli scarichi a mare, del consumo di energia elettrica, del traffico veicolare, del numero di persone sulla spiaggia, della superficie di territorio ricoperta dal cemento e quindi non drenante le acque piovane per verificare se il nostro territorio lo può effettivamente sostenere.

- piano paesistico: c’è infine l’aspetto puramente estetico, legato al patrimonio naturalistico, storico, architettonico e urbanistico che deve essere considerato e tutelato al par degli altri aspetti ; vivere nel bello e in un ambiente accogliente e armonioso genera benessere e aumenta la qualità della vita, come ci ha ricordato Salvatore Settis nella sua Lectio magistralis al Festival della Mente da poco concluso, quando ci ha parlato di “inquinamento antropico”, cioè della sofferenza psichica e psicologica indotta dal degrado dell’ambiente in cui le persone sono costrette a vivere e in cui non riconoscono più la loro storia e la loro identità.

Paesaggi della modernità: Torino verticale
 Guido Montanari, docente di storia dell’architettura contemporanea presso il Politecnico di Torino, presidente della Commissione locale del paesaggio di Torino.

Nell’ambito del dibattito faticosamente apertosi intorno alla scelta di avviare la costruzione di edifici alti a Torino, una della accuse rivolta ai critici dei grattacieli era quella di essere “antimoderni”. Si trattava di un’accusa strumentale, formulata dai principali attori dell’edificazione in altezza: il sindaco, il committente e alcuni dei progettisti, in un confronto che, come spiega Sisto Giriodi, aveva poco di culturale . Tuttavia la pretesa antimodernità dei difensori del paesaggio consolidato ha trovato una certa eco nell’opinione pubblica ed è stata ripresa da alcuni interventi in sedi autorevoli . Merita dunque di essere approfondita, anche perchè si presta a qualche riflessione, forse non scontata, intorno al tema delle trasformazioni recenti dell’architettura e della città, all’epoca della globalizzazione.

Quale modernità per l’architettura al tempo della globalizzazione ?

Non è questa la sede per discutere in termini filosofici di modernità, tuttavia alcune considerazioni preliminari sono necessarie per capire come questo termine possa essere interpretato nell’ambito di una visione contemporanea dell’architettura. “Moderno” (dal latino modo, “or ora”) indica ciò che è attuale, che è odierno, tuttavia la modernità dei nostri tempi si esprime con il “Secolo dei lumi”, cioè con l’affermazione dei diritti dell’uomo e con la riscoperta della razionalità scientifica come metodo per lo studio della realtà, al di là dell’oscurantismo religioso. Approccio che troverà ulteriori sviluppi nel pensiero positivista ottocentesco e nel materialismo dialettico.

Radicato in questo percorso di emancipazione intellettuale e di riferimento ai valori di libertà, uguaglianza e fraternità, si sviluppa nei primi decenni del Novecento il Movimento moderno in architettura che afferma da un lato la rottura nella ricerca formale con il passato, e dall’altro sperimenta nuovi materiali, tecniche e organizzazioni produttive, sullo sfondo di una forte istanza etica e politica. Gli architetti razionalisti credono nella responsabilità sociale dell’architettura, come strumento di progresso della società. Riconoscendosi in una sfaccettata visione progressista che va dal tecnicismo paternalista, al riformismo socialista, fino al comunismo rivoluzionario e all’anarchismo, essi sono convinti di poter risolvere i problemi della città industriale, del suo affollamento, dell’insalubrità delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, della carenza di alloggi a basso costo e di luoghi per la cura e per il loisir di tutti i cittadini.

Sulla base dei loro studi, coordinati in comitati internazionali, dibattuti in convegni, pubblicati su riviste e diffusi anche tra il vasto pubblico, attraverso esposizioni e costruzioni di “quartieri modello”, si avviano numerose realizzazioni negli anni compresi tra le due guerre mondiali che costituiscono ancora oggi i più interessanti esperimenti di social housing mai realizzati. Si pensi alle decine di migliaia di alloggi, dotati di verde e servizi delle siedlungen tedesche, oppure ai più tradizionali höfe austriaci, o ancora alla pianificazione dei nuovi quartieri olandesi o agli esperimenti di Dom komuna dell’Unione Sovietica.

Per la prima volta nella storia si progettano alloggi economici, ma efficienti, inondati di aria e di luce, immersi nel verde, con spazi per i servizi sociali, per le scuole, per lo sport, collegati da efficienti trasporti pubblici. Dalla riflessione intorno a queste esperienze nasce l’urbanistica moderna, codificata nella Carta di Atene nel corso del IV Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM) del 1933.

Elemento centrale di questo testo è la primarietà dell’interesse pubblico nel processo di pianificazione da attuare a partire da strumenti di controllo del diritto di edificazione dei suoli.

Le aspirazioni del Movimento moderno sono presto oscurate in tutta Europa dalla svolta autoritaria e dall’affermarsi dei totalitarismi. A fronte delle macerie della seconda guerra mondiale, tra lutti e tragedie immani, anche il mito della modernità esce fortemente ridimensionato. Le sue regole, irrigidite nell’International style, appaiono deboli a confronto con i problemi della ricostruzione postbellica: il rapporto con i contesti storici ed urbani, le aspirazioni delle persone a riconoscersi nei propri quartieri, l’affermazione di una nuova dialettica tra individualità e collettività.

Le risposte più interessanti si situano ancora nel filone della modernità, pur declinato nella ricerca della corrente neorealista. Il piano Ina-Casa diventa un laboratorio di sperimentazioni intorno al tema della socialità e della identità dei luoghi. A Torino i quartieri della Falchera (piano urbanistico coordinato da Giovanni Astengo, 1948-1953) e di Vallette (piano coordinato da Gino Levi-Montalcini, 1958) sono esempi di un riuscito rapporto tra spazi privati e pubblici, tra edifici, verde e servizi collettivi, anche se la realizzazione di questi ultimi avverrà con colpevole ritardo da parte delle amministrazioni. I quartieri citati a confronto con le aree di recente edificazione emergono per qualità progettuale costituendo una denuncia implicita della povertà dell’attuale disegno urbano.

Negli anni Sessanta la ripresa industriale e il “boom economico” coincidono con la crescita incontrollata delle città, con la deturpazione delle coste e delle vallate alpine, con l’aggressione al territorio e alle sue ricchezze culturali e ambientali. A Torino, nelle more dell’adozione del nuovo piano regolatore (Annibale Rigotti, 1959), non soltanto si autorizzano migliaia di richieste edilizie, ma si permette anche la costruzione di alcuni piccoli grattacieli nel centro storico, offeso dalle bombe. Sono edifici di modesta qualità architettonica che ingombrano il paesaggio e spesso non rispettano la continuità delle cortine edilizie, creando incongrui arretramenti o piccoli sventramenti, riassorbiti dalla forza dell’impianto urbano storico. Impianto fortemente caratterizzato dalla griglia regolare delle strade, dagli straordinari assi visuali barocchi e da forte orizzontalità, in rapporto con le visuali delle montagne e della collina.
Non manca nel periodo qualche edificio alto come la torre dei BBPR di corso Francia, il grattacielo Rai di Domenico Morelli e Aldo Morbelli, quello della Sip, ora sede della Provincia di Torino, di Ottorino Aloisio: opere invadenti nel panorama della città, ma che esprimono l’alta cultura progettuale dei loro protagonisti e un tentativo di dialogo con il contesto.

L’impegno della cultura urbanistica degli anni Settanta, sui temi del controllo dell’uso dei suoli, della dotazione di servizi sociali, di scuole e di verde si riverbera anche a Torino. La città, governata per due mandati da giunte di sinistra, attua una moderata politica di controllo dello sviluppo urbano e di investimento nei servizi pubblici, avviando una stagione di studi a scala regionale sui beni culturali e ambientali, sul sistema dei trasporti, sulle dinamiche produttive e insediative che preludono all’attualizzazione dell’ormai obsoleto piano regolatore. Tuttavia la timidezza delle amministrazioni di Diego Novelli e la virulenza della pressione speculativa sulle aree urbane anticipano la svolta degli anni Ottanta. La nuova stagione politica, caratterizzata dal reaganismo e dal thatcherismo, incentrata sul primato dell’iniziativa privata e sull’eliminazione di “lacci e laccioli”, si radica in un Paese che storicamente non è mai riuscito ad affermare una moderna politica di controllo del territorio.
Questa inversione di tendenza si amplifica a Torino nel quadro della crisi della città industriale e costituisce lo sfondo dell’abbandono dei tentativi di razionalizzazione del territorio a scala regionale e di controllo delle rendite fondiarie. Il nuovo piano regolatore di Vittorio Gregotti e di Augusto Cagnardi (1995), avviato grazie alle opere olimpiche, interpreta l’opportunità della trasformazione dell’enorme patrimonio di aree industriali come valvola di sfogo e volano per tamponare la crisi industriale e ricollocare la città nell’ambito del nuovo marketing urbano internazionale.

Sull’onda dell’entusiasmo olimpico il Consiglio comunale guidato dal sindaco Sergio Chiamparino approva nel 2006 una serie di varianti al piano che portano l’altezza di alcuni edifici previsti sul nuovo asse centrale della Spina da circa settanta metri (altezza massima dell’edificato nella città, esclusa la Mole Antonelliana) a cento metri, poi centocinquanta, poi all’eliminazione del limite. Si prevedono edifici alti in vari luoghi, senza un disegno urbano, in virtù della richiesta di “densità” che secondo gli amministratori incrementerebbe il valore delle aree. La città rinuncia al tentativo di controllo della rendite, ma anzi diventa promotore delle stesse per potersene in parte appropriare.

Si apre così la fase attuale, nella quale il piano è svuotato dall’approvazione di più di duecento varianti che inseguono le proposte dei proprietari delle aree, dei costruttori e dei promotori finanziari, nel tentativo di rimpinguare le esauste casse comunali attraverso l’incameramento di “diritti edificatori”. La sudditanza nei confronti della redditività di capitali prevalentemente finanziari, diviene la nuova frontiera delle scelte dell’amministrazione che cerca di sopravvivere ai tagli dei finanziamenti del governo centrale.

Dunque la pretesa modernità della recente trasformazione urbana, ampiamente propagandata da una stampa molto accondiscendente, consisterebbe nella piena affermazione di politiche liberiste, nel ridimensionamento di tutti i servizi pubblici, nell’abolizione degli standard, nella vendita di proprietà e di società pubbliche: nella messa “a reddito” del territorio.

La modernità cui ci siamo riferiti finora aveva espresso ben altri punti di vista sulla città.

I grattacieli: architetture della modernità ?

La storia dei grattacieli, è noto, inizia a Chicago circa centoquaranta anni fa con la ricostruzione della città dopo l’incendio del 1871. La spinta all’altezza, dovuta agli alti costi delle aree, porta a significative innovazioni strutturali, ma gli architetti, legati alla formazione Beaux arts, propongono edifici come l’Auditorium Building di Dankmar Adler e Louis Sullivan che, pur avendo soluzioni impiantistiche molto innovative e una struttura che inizia ad assottigliarsi sempre di più, prima in ghisa e poi in acciaio, sono composti secondo la tradizionale tripartizione: basamento, fusto e coronamento, rivestiti di decori.
Nell’esposizione internazionale del 1898 a Parigi, Gustave Eiffel esplora nuove possibilità strutturali con una torre in acciaio di oltre trecento metri. Anche in questo caso si assiste al mascheramento della conquista tecnologica: i quattro piloni sono collegati da archi che richiamano l’idea dell’arco di trionfo, ma sono staticamente inutili e aggiunti posteriormente. Nonostante questi espedienti la torre suscita il rifiuto di numerosi intellettuali che, guidati da Emile Zola, chiedono la demolizione dell’ingombrante traliccio, non riconoscendone la forte carica di innovazione tecnologica e di segno del paesaggio. L’antistoricità di questa posizione non può essere confusa con quella di chi ora si oppone ai grattacieli, prodotti ormai seriali, privi di caratteri innovativi.
Rifiutati in Europa, gli edifici alti si diffondono negli Stati Uniti nel corso del Novecento, ma ancora nel solco della tradizione, come dimostra il concorso internazionale per il Chicago Tribune (1922) dove vince il riferimento alla cattedrale gotica e tra i circa trecento progetti presentati, vi sono citazioni del campanile di Giotto e di torri medievali, oppure di colonne classiche, come quella, dorica, di Adolf Loos.

E’ in Europa che l’edificio alto diventa emblema di modernità interpretando la rottura con la tradizione delle avanguardie artistiche. Il futurista Antonio Sant’Elia disegna giganteschi complessi intersecati da ponti ferroviari, piste di aeroporti, percorsi dai serpenti degli ascensori. Nell’ambito del costruttivismo russo si ipotizzano edifici provocatori come la torre di Vladimir Tatlin che, con la sua struttura in acciaio di quattrocento metri, si oppone polemicamente alla borghese torre parigina. Tra gli espressionisti tedeschi della Catena di Vetro di Bruno Taut, Mies van der Rohe progetta alti palazzi per uffici che già propongono un tamponamento completamente vetrato. L’idea dell’edificio alto come elemento di modernità viene ripresa anche dal cinema: basti pensare a “Metropolis” di Fritz Lang con i suoi sfondi costellati di grattacieli, che costituiranno l’immaginario urbano del futuro, presto esaltato nella letteratura e nei fumetti.

Le ricerche sugli edifici alti affascinano anche i protagonisti del Movimento moderno. Le Corbusier propone di eliminare il tessuto storico delle città e costruire edifici alti, separati da verde e ampie strade. Ma l’architetto francese ripenserà questa ipotesi perché si renderà conto con l’esperienza che il suo modello di città è poco vivibile, come dimostreranno le esperienze di Chandigarh e di Brasilia i cui spazi monumentali, disegnati per l’uso dell’automobile, si rivelano elementi di segregazione della popolazione.

Il CIAM di Francoforte del 1930, Case alte, case basse?, apre il dibattito su come costruire alloggi di buona qualità a prezzo basso, in relazione al migliore utilizzo delle aree. Gropius propone edifici alti in struttura di acciaio, orientati rispetto al sole e al paesaggio, ma il problema non troverà una soluzione condivisa. Nel tempo i quartieri con altezze moderate dimostreranno le migliori condizioni di socialità e di interazione con l’ambiente da parte degli abitanti.

Negli Stati Uniti, tranne per il caso della capitale, Washington, le città destinano la zona centrale, il downtown, all’edificazione in altezza, associata all’immagine di ogni company proprietaria. I più noti interventi, come il Chrysler Building o l’Empire State Building sono costruiti tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, sullo scorcio della “grande depressione” come espressione di un capitalismo in crisi, che però vuole affermare una nuova immagine di ripresa e di forza tramite elementi simbolici, veri prodigi tecnologici: l’Empire State viene costruito in sei mesi e resterà per cinquanta anni l’edificio più alto del mondo.

Dopo la stasi della guerra, negli anni Cinquanta si afferma il nuovo modello di grattacielo elaborato da Mies Van Der Rohe: un parallelepipedo elegante ed essenziale che esprime una nuova ricerca estetica nella cura del dettaglio tecnologico. Negli anni Sessanta la modernità è espressa attraverso la sfida verso l’altezza e l’esibizione tecnologica. Questa fascinazione high tech è declinata in molte opere come le Sears Towers di Chicago di Bruce Graham e SOM., la sede dei Lloyd’s di Londra di Richard Rogers o quella della Hong Kong and Shanghai Bank a Hong Kong di Norman Foster.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si torna a pensare all’edificio alto in rapporto con la storia, come fa Philip Johnson, con l’IT&T di New York, di nuovo tripartito, rivestito in pietra e coronato da un timpano spezzato, o Michael Graves che progetta grattacieli invivibili, nei quali non entra la luce, pur di enfatizzare questo ritorno alla tradizione.

Le recenti tendenze nella costruzione dei grattacieli, prodotti ormai seriali e proposti indifferentemente ai contesti, sono orientate da un lato al superamento dei limiti strutturali e costruttivi, tendendo al record dell’altezza, dall’altro ai nuovi temi della sostenibilità energetica ed ambientale. Tralasciando il primo approccio che ha attualmente il suo primato nel grattacielo di Dubai (alto più di ottocento metri), simbolo di spreco e di gigantismo decontestualizzato, è forse nel secondo che possiamo ritrovare elementi di modernità.

Il tentativo di realizzare grattacieli sostenibili è sviluppato attraverso varie soluzioni: dalla produzione di energia rinnovabile, con impianti fotovoltaici, eolici, geotermici, alla tecniche di ventilazione e di climatizzazione naturali, fino all’introduzione di pareti e coperture verdi. I risultati sono modesti, anche in conseguenza degli alti dispendi energetici necessari sia per la fase costruttiva, sia per quella di demolizione.

Anche il risparmio del consumo di suolo, appare velleitario se si tiene conto delle maggiori superfici necessarie per strutture, elementi di collegamento verticali, accessi, parcheggi e servizi. La città “alta”, contrariamente a quanto si può pensare, è una città che consuma molto spazio, perchè le funzioni concentrate necessitano di ampie porzioni di territorio circostante per le infrastrutture, con i noti effetti di congestionamento, inquinamento e consumo del suolo: la densità abitativa di una città storica come Parigi è superiore a quella di una città di grattacieli come Shanghai.

Il grattacielo dunque non rappresenta una risposta “moderna” ai problemi dell’architettura, non solo perchè costituisce un tipo costruttivo ormai consolidato, che sembra avere esaurito la sua evoluzione tecnologica, ma soprattutto perché esprime una stagione di pensiero e di realizzazioni legata al passato, ad un’epoca in cui ci si illudeva che la tecnologia potesse risolvere tutti i problemi e che fosse possibile una crescita economica senza limiti, con disponibilità infinita di risorse. La consapevolezza dei “limiti dello sviluppo” e della ricchezza dei contesti locali, aggrediti dall’immagine omologante dei grattacieli, fa pensare che questo tipo edilizio non sia adatto, soprattutto nei paesaggi di forte rilevanza storica e culturale, ad esprimere quella carica di innovazione e di progresso sociale che dovrebbe essere connaturata al termine di modernità.

Verso una nuova modernità per la città e per il paesaggio

Nel quadro descritto, l’unica strada per evitare la pressione della globalizzazione e dei conseguenti processi di depauperamento economico e sociale, appare l’utilizzo della crisi come stimolo per la revisione di un modello di sviluppo ormai non più sostenibile, nella prospettiva della valorizzazione delle specificità locali, delle ricchezze culturali e ambientali. Ciò vuol dire valorizzare i territori storici che custodiscono luoghi di straordinaria vivibilità, spazi a misura di uomo, teatri di intensi scambi sociali, testimoni di memorie collettive e individuali.

Il disegno della città storica, talvolta razionale e geometrico per interpretare la volontà del principe, talaltra sinuoso e articolato, per seguire l’andamento orografico, basato sulla mixitè di funzioni e di attività, con i suoi delicati rapporti tra altezza delle case e larghezza delle strade (non fatte per le automobili), con slarghi e piazze per il mercato e per l’incontro (non pensate per il parcheggio), con i suoi scorci verso il paesaggio naturale, con i suoi punti di filtro tra costruito e non costruito, tra zone auliche e zone di servizio, è ancora oggi stimolo prezioso per progettare le nuove espansioni, in sintonia con le necessità della vita attuale.
La scelta di inserire in modo casuale edifici in altezza, magari opera di qualche stella internazionale dell’architettura, identici a tanti altri realizzati nel mondo, permette di far lievitare il valore delle aree e di renderle appetibili al mercato, ma che al tempo stesso distrugge il “genius loci”, i modi costruttivi radicati, la memoria e la socialità. Sono opere che tendono ad uniformarsi a livello internazionale, rischiando di diventare “non architettura”, oppure che devono cercare l’effetto scioccante, con scelte progettuali che rasentano il grottesco. E’ il caso del grattacielo “storto” del complesso di Milano “City life”, ma anche del grattacielo di Renzo Piano per la sede della Banca Intesa San Paolo, previsto ai margini del centro storico di Torino e impattante sulla vista di uno dei più importanti viali alberati storici della città, oppure di quello fuori misura della Regione Piemonte, progettato per un’area e poi tranquillamente spostato in un’altra.

La Convenzione europea (Firenze 2000, recepita in Italia nel 2008) nel definire il paesaggio come sintesi di natura e di cultura “come percepita dalle popolazioni” e nel riconoscere il diritto dei cittadini, peraltro già richiamato dall’articolo 9 della Costituzione Italiana, a vedere protetti i propri paesaggi, non propone un approccio estetico, ma afferma uno dei diritti principali ed inalienabili di ogni persona.

Si sta dunque diffondendo l’idea che il paesaggio non sia qualcosa di soggettivo o legato ad una individuale concezione estetica, ma un vero e proprio “bene”, qualcosa di “indisponibile”, che va conservato in funzione dell’interesse comune, sia con riferimento ai territori di qualità, sia a quelli degradati, da riqualificare. Abbiamo la responsabilità, nei confronti di noi stessi e delle generazioni future, di curare e tramandare il paesaggio, espressione della vita e della cultura di intere generazioni.

Non ha dunque importanza discutere se un grattacielo debba essere più o meno alto, o con quale forma e tecnologia debba essere fatto, ma piuttosto esaminare la sua collocazione in rapporto al contesto e alla funzione per cui lo si costruisce. Soltanto se rispondiamo in modo coerente e attento a queste domande, in relazione alle esigenze che i cittadini e i contesti pongono, compiamo un’operazione accettabile, in sintonia con l’esigenza della tutela e della valorizzazione.

Il rischio altrimenti è di costruire “non luoghi” uguali in tutto il mondo, angoscianti nella loro omologazione, stranianti nella loro impersonalità, perdendo la ricchezza delle diverse identità e tradizioni. Preservare la molteplicità delle culture e dei paesaggi che nel tempo le hanno concretizzate e che ora le testimoniano, non come monumenti intoccabili, ma come opere nelle quali integrazioni e trasformazioni devono essere delicate e sostenibili, deve essere per l’architetto e per il pianificatore importante come per il biologo preservare la biodiversità nell’ambiente naturale.

Così come si sta diffondendo la consapevolezza intorno alla salvaguardia di specifici prodotti alimentari e delle relative filiere produttive, legate a singoli luoghi, a saperi e a tradizioni specifiche, analogamente dobbiamo porci il compito di pensare ad una “slow architecture” , radicata nei propri territori, nei magisteri e nelle scelte culturali e sociali locali, in grado di dare riposta ai bisogni della collettività e non soltanto alle richieste dei proprietari delle aree o dei grandi costruttori.

Riuscire a salvaguardare e curare la qualità del territorio e dei suoi paesaggi, e quindi preservare pezzi di mondo diversi tra loro e che possano dialogare tra loro, è la strada verso una nuova, vera, modernità

Diritto al territorio. Il rapporto città campagna e la città diffusa
Silvano D'Alto , architetto, professore di Sociologia Urbana all'Università degli Studi di Pisa

 Il rapporto città–campagna è stato, nel corso della storia millenaria del nostro territorio, il fattore che ha dato senso alle forme della vita quotidiana, nella città e nella campagna. Senza quella relazione non ci sarebbe stata né la città – nelle modalità in cui storicamente la conosciamo – né la campagna, come realtà opposta e complementare alla città. Oggi quel rapporto è radicalmente mutato: la società industriale, prima, e quella post-industriale, poi, lo hanno destrutturato. Oggi abbiamo residui – relitti – di vita urbana e residui – relitti – di vita agricola. Ma la vita urbana – nella varietà di forme, di luoghi e di tempi – resta un valore centrale delle società occidentali: memoria, identità, relazione sono dimensioni strutturanti – dinamiche, non statiche – della città: quale “punto di massima concentrazione delle energie e della cultura di una comunità” (Mumford).


Sarzana vive, come ogni altra città occidentale, la temperie della trasformazione: la campagna ha subito un violento processo di urbanizzazione, la città è ricondotta ad una parte (centro storico) che ha perso il rapporto col tutto – appunto quell’antico rapporto città–campagna – che le dava vita e senso

Nel territorio si è affermato il fenomeno della “città diffusa”, dove esistono molte funzioni della vita urbana, ma manca lo “spazio”, ossia quel senso della città che ci portiamo dentro come il valore più grande di cultura e civiltà della nostra storia occidentale. Il nuovo compito è di far nascere l’impegno a pensare in termini globali: di nuova città, nuovo ordine urbano, per superare ogni isolamento, ogni individualismo solitario: costruire la ‘civitas’, come comunità; la ‘urbs’ come forma dello spazio vivente; la ‘polis’ come governo della città. Tenere separate queste tre parti vuol dire perdere la possibilità di costruire la nuova città.
Occorre costruire il “diritto al territorio”.

Costruire un nuovo territorio significa costruire il “diritto al territorio”, cioè un nuovo senso dell’abitare, culturalmente e socialmente produttivo, ossia:

diritto al territorio è:

– costruire un nuovo senso urbano. Senso urbano è il percepirsi ed essere percepiti come attori in un’area di vita comune vissuta come propria, nella quale spazio e società tendono a rispecchiarsi nella unità della vita urbana. La vita urbana è la compresenza di una molteplicità di azioni, che esprime ricchezza di comunicazione, di incontro, reciprocità di sentimenti, scambio (anche commerciale, ma con una pluralità di attori. non con un distributore unico), simultaneità delle forme dell’agire collettivo. Tutto ciò in una spazialità che ha avuto nella piazza il suo momento più esaltante e simbolicamente elevato. Dalla strada, alle piazze minori, alla piazza maggiore: era un percorso di spazi pubblici, per vivere quel “senso della città” che noi tutti ci portiamo dentro, come senso di libertà, di uguaglianza, di scambio. Un senso che si risveglia – per brevi istanti di felicità – solo quando siamo turisti nelle antiche città del mondo e che, invece, con cinico disinteresse e quasi vantandoci di realismo e di economicismo, quotidianamente distruggiamo.

- superare, nella “città diffusa”, la condizione di ‘agglomerato’ e costruire nessi, relazioni, legami, e raccontare un’altra storia dell’abitare, un nuovo logos dello spazio (léghein è raccontare; dire la misura, il principio di vita) per costruire il senso di un vivere comune.

– fare della partecipazione la dimensione costante dell’agire territoriale: stampa, blog, filmati, devono tallonare la politica per restituire al cittadino, ai cittadini uniti, il diritto al territorio, cioè il diritto di essere non destinatari, ma attori di senso urbano.

Nella urbanizzazione diffusa della Val di Magra – nello ‘sprawl’ della piana –nasce il fenomeno – per noi positivo – degli orti urbani. Ossia di una produzione orticola che non è ordinata alla filiera mercantile, ma che esprime il piacere di un rapporto pieno e libero con la fertilità della terra, con la bellezza della sua produzione; con un impegno che ha spesso nel dono la sua motivazione profonda. Si tratta di una dimensione sempre più diffusa nel contesto urbano e suburbano europeo, e ovunque è accolta come un momento positivo: culturalmente, economicamente, socialmente. È importante assumere tale fenomeno come un momento strategico per produrre nuova relazione di senso nella città da costruire come prospettiva di futuro